Ferraris IV, Bernardini, MasettiStorie di tre leoniAttilio e Fulvio venivano da lontano, nel tempo: erano due antichi romani. Intatti, incorruttibili. Suo zio Muzio Scevola aveva insegnato il giochetto ad Attilio: bruciati pubblicamente la mano, se hai commesso un delitto verso la patria, vale più di cento battaglie vinte e verserai meno sangue. Attilio non posò mai la mano sul fuoco vivo del braciere, ma sotto il suo palmo destro raccolse ogni volta, prima della partita, il dito indice dei suoi compagni di squadra. In un giuramento rapido e sboccato, grottesco se visto dal buco della serratura, nobile se colto da vicino, negli sguardi aggressivi: «Chi desiste dalla lottai è un gran fijo de mignotta». La Roma non aveva vinto molto, anzi niente fino a quel giugno '42 inaridito dalla guerra, al gol di Borsetti, al primo scudetto; eppure a Testaccio aveva creato una leggenda, oggi rivissuta dalla Curva Sud: proprio perchè la squadra ha sempre ri_ spettato il giuramento. Nella lunga storia di antico romano, Attilio si era fermato nel rione Borgo -spalla a spalla con piazza San Pietro- dove era nato e cresciuto. Papà Secondo aveva un laboratorio per le riparazione delle bambole, e pretendeva che il figliolo collaborasse: ma si era mai visto un feroce guerriero intento a modellare un biondo ricciolo di stoppa? Attilio giocava a pallone, giocava e ringhiava. Aveva bussato alla porta di Fratel Porfirio, lassù alla Pineta Sacchetti: era la tana della Fortitudo. Fratel Porfirio scrutava attentamente i ragazzi, li consigliava: ma alla prima debolezza agonistica li cacciava. Questa era la Fortitudo e Attilio ne divenne subito il capitano: tanto basta per capire il tipo. Era il futuro «leone di Highbury», come lo definirono gli inglesi dopo la memorabile partita del 14 novembre 1934 a Londra-Highbury, con l'Italia campione del mondo. Dunque Ferraris IV non bruciò mai la mano sul braciere, perchè tradimenti non ne aveva commessi, neppure quando passò brevemente alla Lazio e nel derby lo ritrovarono nemico: i romanisti ridevano per non piangere, sembrava carnevale, con Attilio in biancazzurro. La colpa non era sua: lo avevano creduto stanco, il guerriero con il ginocchio a terra, vinto non dalle ferite ma dal peso stesso dei suoi successi. Lo avevano messo in disparte. Lui era andato a chiedere armi nell'accampamento nemico, voleva soltanto dimostrare di essere vivo e intatto. Finì come doveva finire, tornò alla Roma. E finì come doveva finire anche la sua ardente avventura umana, perchè Attilio morì giovane, a 43 anni, sul campo: mentre giocava a Montecatini una partita di benefiClenza. Fulvio da portiere a centravanti Fulvio Bernardini era invece un antico romano sofisticato, di quelli che in
Senato viaggiavano su lunghi discorsi insidiosi tra il serio e il faceto, e
potevano uccidere il nemico con una battuta o uno sguardo severo. La bella bandiera era MasettiGuido Masetti proveniva invece da Verona. Si capirono subito, lui Attilio e Fulvio: e si capirono alla maniera malandrina, nel senso che tutti e tre adottavano teorie trasgressive, e le applicavano con spietata puntualità: anche di notte, nei ritiri, qwindoAttilio in specie azzardava brevi fughe attraverso le finestre. Fulvio era un saggio-ridens, Guido un mattacchione totale. Sono stati soprattutto loro i protagonisti della prima epoca giallorossa: e comunque erano loro gli eroi popolari, quelli che la gente più amava. Masetti cantava, ballava, una volta in una festa dell'ambasciatore turco si vestì da baiadera e improvvisò una danza del ventre, mentre Attilio con sguardo avido seguiva le mosse di una solenne tartaruga ornata di brillantini. Nel ritiro di Ostia, alla vigilia di una trasferta a Napoli, decise di non sopportare più la noia. Girò per la cittadina, arruolò un'orchestra, salì su una sedia e si mise a dirigerla. Solo Von Karajan, forse, è stato più applaudito di lui.
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